Staminee de Garre


A Bruges, nella strada che collega il Grote Markt (la piazza principale) con un'altra piazza, si apre la porta di un vicoletto angusto ed invisibile, tanto stretto che se si allargano le braccia non si riesce ad entrare.
Entrando in questa stradina, degna del miglior Gaiman metropolitano per colori e sensazioni, si raggiunge una piccola scala, quindici gradini al massimo. Fatti questi si apre un'anonima porta, e si entra in in uno dei più nascosti templi della birra belga.

De Garre, sconosciuto nettare prodotto in loco dalle sapienti mani di chi la birra la sa fare, e non per finta.
De Garre, la realtà più angusta che abbia mai visto, ma sicuramente una di quelle che mi ha affascinato di più.
De Garre, una tripel morbida, quasi vellutata, ma dal gusto deciso. La schiuma spessa e dolce, lo spirito potente di chi passa gli undici gradi.
De Garre, il posto che mi mancherà maggiormente di Bruges.

Chiamarlo locale è una limitazione di quello che si prova in un luogo che ha del religioso: la messa continua tutta sera, tra le pareti in mattoni nudi che raccontano vecchie storie. Le tovaglie, volutamente trasandate, trasudano schiuma colata e chiacchiere.
Mi avvicino al bancone, frastornato da tanta intimità. Le gambe tremano leggermente, e il desiderio di assaggiare si fa sempre più forte.
Ordino una De Garre, ovviamente, da bere al bancone; il mio inglese è timido, anche se non me la cavo male: ma il mio carattere chiuso spesso non mi permette di esprimermi al meglio.
Il ragazzo dall'altra parte del bancone mi dice che per chi è da solo c'è a disposizione un tavolo comune, niente bancone per chi beve De Garre. Ringrazio cortesemente e mi avvicino a quelli che saranno i miei compagni in una delle serate più piacevoli della mia vita.

Una coppia di fidanzati, più o meno ventenni e una signora di mezza età, invecchiata male nel fisico ma ancora sorridente e frizzante, con il suo bastardino al guinzaglio che tra gli antenati può vantare sicuramente un barboncino.
Compagni di bevuta.
Il cane mi saluta festosamente, io gli rispondo in italiano. La ragazza riconosce la lingua e comincia a farmi qualche domanda di circostanza.
Imbarazzato tento di rispondere lentamente, ma la mia insicurezza mi spiazza e termino la frase prima del dovuto almeno tre volte.
Invoco un aiuto da non so quale dio e in tutta risposta il ragazzo della spina mi porta una coppa carica di una birra dorata, dalla schiuma soffice e piena.




I miei compagni interrompono le chiacchiere, rimanendo in religioso silenzio, attendendo che io concluda l'esame visivo e olfattivo, e abbia dato il primo sorso.
Il profumo è ottimo, fruttato e leggermente floreale, intenso; ma quello che mi preoccupa maggiormente è l'esame gustativo.

La tripel per me è croce e delizia: nonostante sia un genere che pone la gradazione alcolica come punto di forza, non apprezzo particolarmente che calcano troppo questo aspetto, esaltando troppo l'alcol e rendendo il finale troppo secco per i miei gusti.
Ma quando al tripel è bilanciata, poche birre sono così complete e complesse.

La De Garre è diversa dalle tripel convenzionali, ma mantiene i tratti della tipologia con grande eleganza e finezza. Già dal primo sorso è morbida, fruttata; l'alcol è una sottile vena calda che pulsa nel nucleo del nettare, nel centro della coppa.
Una birra eccezionale, la raccomando a chiunque abbia la vista buona per localizzare il vicoletto del locale.

La birra comincia a rilasciare il suo effetto rassicurante: la mia parlantina si scioglie nella schiuma di un'esperienza fondamentale per gli amanti delle birre belghe.
Parlo con i miei compagni di tutto, della scuola, della crisi, dei luoghi da i quali veniamo. La coppia di ragazzi è dello Yorkshire (sede di grandi birrifici): lei lavora in un ristorante italiano e adora le birre belghe, lui studia ed è un grande fan di BrewDog e dei whisky torbati scozzesi. La signora sorridente è del posto, vedova nonostante l'età e con un figlio a Dublino.
Parliamo dell'Italia, del costo del caffè, di calcio e di birra. Parliamo della temperatura (nessuno crede ai quaranta gradi estivi nel Bel Paese), di come si stava a casa, di quanto sono corte le vacanze.
Ad ogni argomento che finiamo mi accorgo che il livello di birra nel bicchiere cala, ma non me ne importa sul momento.

Finisce il bicchiere, il momento più triste della serata. Mesto vado a pagare la consumazione (4€, un prezzo abbastanza onesto per una birra del genere, da 33cl), e torno al tavolo per salutare i miei compagni.
Li ringrazio delle chiacchiere e per avermi accolto al loro tavolo; mentre mi congedo, mi accorgo che nonostante abbia finito la birra senza "chimicarla" sorso per sorso, analizzandola da "vero degustatore", è servita allo scopo: mi ha fatto passare un'ora stupenda, e mi ha fatto conoscere persone che in fondo mi mancano e probabilmente non vedrò mai più.

Faccio un saluto militare ai miei commilitoni, e mi chiudo la porta dietro alle spalle, saldamente: la tentazione di riaprirla è tremendamente forte.

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